I dati, però, dicono che almeno una parte del sistema è malato. Nel 2021 – si legge nel “VI Rapporto agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto, l’ultimo pubblicato e basato su dati Istat – erano circa 230mila gli occupati impiegati irregolarmente nel settore primario (oltre un quarto del totale degli occupati del settore, che secondo gli ultimi dati dell’Istituto nazionale di statistica nel 2022 erano 1.006.975), in larga parte “concentrata nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura“.
Di questi, 55mila sono donne “che si trovano a vivere un triplice sfruttamento: lavorativo, per le condizioni in cui lavorano; retributivo, perché anche tra sfruttati la paga delle donne è inferiore a quella dell’uomo fino al 30%; e, infine, anche sessuale e fisico“.
Il problema, inoltre, non riguarda solo il Centro-Sud: “Se è vero che la geografia del lavoro agricolo subordinato non regolare è radicato in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi di irregolarità che superano il 40%, in molte regioni del Centro-Nord i tassi di irregolarità degli occupati sono comunque compresi tra il 20 e il 30%“.
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