BESNATE ( VA ) - Sabato scorso davanti ad un pubblico di 140 persone -
«Dentro di me ci sono cicatrici che solo io posso vedere».
Siaka ha trent’anni, viene dalla Guinea Conakri e oggi in Italia ha una vita e un lavoro, ma le sue cicatrici le racconta per la prima volta, la voce sicura che solo in quel momento incespica appena.
Di fronte a lui un pubblico di centoquaranta persone, riunite tra sala e balconata del cinema Incontro di Besnate, dove è stato appena proiettato “Io capitano”, il film di Matteo Garrone che racconta l’odissea di un ragazzo senegalese attraverso le sabbie del deserto, le violenze in Libia, i rischi dell’alto mare del Mediterraneo.
«È la prima volta che ho raccontato quello che ho vissuto» ci dice Siaka al termine dell’evento a Besnate. Anche lui – come il protagonista del film – è stato “capitano”: i trafficanti hanno detto a lui e a un altro ragazzo che dovevano prendersi la responsabilità di condurre la barca. «Era un gommone, gonfiato con aria, c’erano centocinquanta persone. Quando eri su non si poteva più muovere nessuno, non riuscivi neppure a spostare una gamba».
Il barcone si è afflosciato nel mezzo del Mediterraneo, quando per fortuna all’orizzonte già appariva una nave della Marina o della Guardia Costiera italiana. «Non so nemmeno io come ho fatto a salvarmi, non sapevo nuotare e sono rimasto appeso al gommone [ormai floscio]. Un bambino si è aggrappato a me, sua madre è finita chissà dove», continua Siaka.
Abdoulaye Ba ha raccontato la sua esperienza -
Un racconto “sedimentato”, messo nero su bianco nel libro “In inferna”, uscito nel 2021 e curato da Dario Villa, di Teatro Periferico, che aveva già coinvolto Abdoulaye, Siaka e altri richiedenti asilo in un laboratorio teatrale.
Dall’infanzia in un villaggio di campagna in Senegal all’approdo in Italia, dall’addio nel dicembre 2014 all’arrivo a Lampedusa nel febbraio 2016, il racconto di Abdoulaye Ba – oggi assistente in casa di riposo a Laveno e studente di infermieristica – è un perfetto contrappunto al film di Garrone, consente di ripercorrere il viaggio che passa da Agadez in Niger, prosegue per Sabha in Libia, dal lavoro quasi schiavistico a Tripoli.
Il dramma della traversata del deserto, sia a piedi che su veicoli («la tua vita a bordo di un pick up è affidata a un pezzo di legno» a cui reggersi per non essere sbalzati) contrasta con l’immensità di terra e cielo che lascia Abdoulaye di fronte a sé stesso
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