Circola in rete un video girato nel 2018 in Giordania e diffuso on line in questi giorni, nel quale si vede una giocatrice di calcio alla quale, durante una partita, dopo un contrasto con un’avversaria, si sposta l’hijab, lasciando parzialmente scoperti i capelli. Lei smette immediatamente di giocare, si porta le mani sulla testa, si piega e tenta di aggiustarsi il velo. Le avversarie interrompono il gioco, la circondano per coprirla allo sguardo del pubblico e permetterle di sistemarsi nuovamente l’hijab.
Naturalmente tutti si sono soffermati sul gesto delle avversarie, lodandone la sensibilità nel fermarsi e sostenere una giocatrice in difficoltà. In pochi invece hanno posto la loro riflessione sui fotogrammi precedenti: una giocatrice di calcio che interrompe il gioco perché le si vedono poche ciocche di capelli. Quale carico di significato devono avere quelle ciocche mostrate in pubblico per indurre a interrompere una partita e a reagire quasi terrorizzata. Quanti secoli di misoginia, di odio nei confronti del corpo femminile sono concentrati in questi pochi istanti? Cosa sarà passato per la testa di questa ragazza? Avrà forse pensato alle conseguenze che avrebbe subito a casa? O alle fiamme dell’inferno che le avrebbero bruciato per l’eternità i capelli? Certamente a qualcosa di talmente grave da indurla a fermarsi senza neanche concludere l’azione. Le solerti rappresentanti del “femminismo a casa nostra” si affrettano a spiegare: per chi indossa il velo, non averlo è come essere nude. Certo, non c’è dubbio che sia così! Ma appunto lì è il problema: i capelli considerati come parti intime, da nascondere allo sguardo altrui1.
Uno dei punti centrali del movimento delle donne è stata la lotta per desessualizzare il nostro corpo, rivendicando la libertà di mostrarlo o coprirlo a seconda delle nostre scelte ed esigenze e non in ossequio a una qualche ideologia o fede (e naturalmente quando questa ideologia o fede l’abbiamo introiettata noi stesse la faccenda si complica non poco, ma non per questo alziamo le mani, anzi). E continuiamo a farlo, quando per esempio rivendichiamo il diritto di allattare in pubblico senza doverci vergognare né coprire o pretendiamo di poter parlare delle mestruazioni senza ricorrere a strani giri di parole o quando denunciamo l’uso sessuato del corpo della donna nelle pubblicità e mille altri sono gli esempi che potremmo fare. Tutto questo però a casa “nostra”. Perché invece quando questa sessualizzazione del corpo è all’opera “altrove” (un altrove non tanto geografico ma “culturale”, o percepito tale), facciamo spallucce e ci accontentiamo delle spiegazioni che sono le stesse del campo avversario: “Per chi indossa il velo, non averlo è come essere nude”. Ossia quello che dovrebbe essere il punto di partenza di un discorso di decostruzione di una ideologia misogina e oppressiva (propria anche di molte donne, il che non la rende meno misogina e oppressiva), diventa il punto finale che non si può neanche mettere in discussione2.
Questo video ci consente anche di distinguere – cosa che dovremmo fare sempre e che “in casa nostra” infatti facciamo regolarmente – il piano individuale da quello culturale e politico. Che quella ragazza fosse in difficoltà era evidente e ogni donna che guarda a un’altra donna come a una sorella non avrebbe fatto niente di diverso da quello che hanno fatto le sue avversarie. Questo gesto di doveroso sostegno e aiuto non deve, però, impedire di urlare al mondo che quella ragazza non avrebbe mai, per nessun motivo, dovuto vergognarsi per due ciocche fuori posto e che non avrebbe mai dovuto aver bisogno per questo della protezione delle sue sorelle. Le quali hanno il dovere di proteggersi l’un l’altra ma anche, allo stesso identico tempo, di combattere le condizioni che le costringono a proteggersi.
" ANIMABELLA " dal Blog di CINZIA SCIUTO
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